Sul perché siamo tutti cavie, almeno una volta nella vita.
L’espressione “essere una cavia” è presa in prestito dalla scienza medica. Le cavie sono infatti quei graziosi animaletti simili a criceti che dalla fine dell’Ottocento vengono utilizzati per testare sostanze chimiche e per esperimenti, un tempo sempre trucidi. Oggi l’utilizzo degli animali si è per fortuna ridotto, proprio per il fatto che molte sostanze sono già state testate sugli ignari pelosi, e per il fatto che l’intelligenza artificiale, i database condivisi e i modelli matematici danno delle previsioni piuttosto precise su una serie di benefici e reazioni avverse.
I ricercatori spiegano però che la fase di test sugli animali è oggi ancora indispensabile per tutta una serie di procedure, anche se i protocolli anti crudeltà sono molto rigidi e le alternative ai test sugli animali fanno passi avanti. La stessa cosa non si può dire del trattamento orribile a cui sono sottoposti gli animali negli allevamenti intensivi (che producono la quasi totalità della carne, salumi e latticini che mangiamo), nei circhi e in molti altri contesti. La mia coscienza è tormentata ma non posso tacere a me stessa la realtà: senza il sacrificio di molti animali, non avremmo cure per le peggiori malattie che affliggono la nostra specie e anche le altre: cani e gatti domestici inclusi, tumori oggi curabili inclusi.
Resta il fatto che gli animali non danno il loro consenso, e probabilmente non lo darebbero nemmeno se potessero. La sperimentazione sugli esseri umani, pure indispensabile per mettere in circolazione un farmaco o una terapia, invece richiede l’autorizzazione dei soggetti coinvolti. La differenza in fondo sta lì: se lo testano su di noi ci chiedono di firmare un consenso informato.
Eppure, quando affermiamo che non vogliamo essere delle cavie, non sempre siamo consapevoli di quanto poco sia vero. Noi siamo le cavie delle future generazioni così come le generazioni precedenti lo sono state per noi. Con o senza consenso informato, che è una pratica molto recente e anzi (checché ne dicano i detrattori) una straordinaria conquista ottenuta con anni di battaglie delle associazioni dei pazienti. A differenza di quel che può sembrare, non è un modo con cui i medici scaricano su di noi la responsabilità di quel che ci fanno: è una protezione contro una medicina spesso presuntuosa e renitente al confronto con i pazienti.
Mi sottopongo volontariamente a un trattamento, a un intervento o a una sperimentazione solo dopo essere sicura che mi siano state spiegate esattamente le finalità del protocollo e le possibili cause avverse. Se invece di infilare un bugiardino, che non legge mai nessuno, nella scatola di un farmaco da banco ci facessero firmare un consenso informato prima di vendercelo in farmacia, siamo certi che lo faremmo con leggerezza? Avete idea delle possibili reazioni avverse segnalate per farmaci come l’ibuprofene o il paracetamolo? Date un’occhiata qui, e anche qui.
La nostra idea di un mondo sicuro, senza pericoli, senza effetti collaterali, dove la scienza (ufficiale o eretica che sia) permette previsioni certe, la morte si evita se si sta attenti e le reazioni avverse sono assenti se ci atteniamo a cure “naturali” è un’illusione frutto del grande comfort che (per fortuna) ci hanno regalato 75 anni di pace (a casa nostra) e di quella stessa scienza sempre più tecnologica e mirata che talvolta guardiamo con diffidenza. Da grande fan dell’erboristeria, che sta alla base della storia della medicina, so perfettamente che con la natura non si scherza, e che la grande farmacia verde che il Pianeta ci mette a disposizione produce veleni micidiali alcuni dei quali diventano farmaci solo rispettando le quantità ed evitando le interazioni errate con altre sostanze.
La nostra idea di sicurezza è viziata. La vita è un posto precario, fragile, esposto a rischi continui dai quali l’evoluzione stessa ci difende con meccanismi mentali che inducono ad ignorare, minimizzare o eludere costantemente la grande parte dei pericoli che ci insidiano. Un meccanismo che si rafforza con il passare degli anni e che, per stortura, a volte si trasforma in ossessione attraverso l’amplificazione di rischi specifici. Ossessione che ciascuno di noi ha rispetto ad alcuni pericoli e non rispetto ad altri, senza che ci sia una ragione logica, statistica oppure oggettiva.
Io per esempio sono terrorizzata dalle intossicazioni alimentari. Se devo assaggiare un conserva sott’olio o una marmellata fatta in casa, ho bisogno di una cavia. Se il barattolo è appena stato aperto e qualcuno ne ha mangiato il contenuto, dopo un paio di ore sono tranquilla perché temo il botulino, la salmonella e qualunque altra immonda bestia si possa insinuare in un prodotto non perfettamente sterilizzato. Le statistiche non mi danno ragione, le mie probabilità di morire avvelenata per un cucchiaio di confettura di ciliegie sono effettivamente basse. Parliamo di 5 persone l’anno, in Italia. Eppure la mia percezione del pericolo è altissima. Lo so che è sballata, ma non ci posso fare niente. Anzi, una cosa la posso fare. Posso convivere con la mia paura senza costruirci intorno una teoria che la avvalli, magari facendo uso di dati manipolati o interpretati in maniera errata, per dimostrare che il pericolo è maggiore di quel che è in realtà. E la tentazione di farlo, credetemi, e sempre molto forte in tutti noi…
Nessuna scienza o conoscenza porta in sé la verità, ma solo la ricerca della verità. E ogni 10 anni sappiamo di più dei 10 anni precedenti, e solo tra 10 anni potremo valutare con lucidità le scelte che facciamo oggi. In estrema sintesi potremmo dire che siamo cavie ogni giorno delle scelte che facciamo per la salute e il benessere nostro e degli altri.
Nel 1926 il giovane medico trasfusionista Vittorio Formentano è stanco di vedere le donne, soprattutto quelle povere, morire dissanguate durante il parto. Allora la scienza trasfusionale era agli albori e il sangue si comprava e si vendeva. Decide dunque di pubblicare sul Corriere della Sera un appello per radunare dei donatori volontari. Rispondono in 17, i quali si mettono gratuitamente a disposizione, senza sapere se in effetti la loro scelta avrebbe comportato un rischio per la propria salute. Nemmeno i riceventi sapevano se avrebbero tratto davvero giovamento da quelle trasfusioni, e in effetti non andò sempre bene. L’errore AB0 e le altre complicanze sono ancora un fattore di rischio letale, seppur raro oggi ma non allora. Possiamo dire che questi donatori furono le cavie che diedero il via a un’Associazione – l’Avis – che oggi conta oltre un milione e trecento mila donatrici e donatori che salvano la vita a 1.800 persone al giorno.
Questo è un esempio che mi sta particolarmente a cuore, ma la storia della scienza e della medicina è costellata di cavie, errori in buona fede o in malafede, vicoli ciechi, intuizioni, battaglie intestine, vittorie insperate, passi indietro, balzi avanti, menzogne, ciarlatani, sconfitte, dolore.
Una cavia, dicevamo, è chi sceglie di intraprendere una strada non ancora intrapresa: non solo dalla collettività, ma anche nella sua storia personale, e lo fa valutando (erroneamente o correttamente) le conseguenze della sua scelta sulla base della percezione del rischio o (purtroppo più raramente) dei benefici collettivi. Ogni volta che ci curiamo con un farmaco o ci sottoponiamo a un vaccino, che sia noto o meno, siamo consciamente o inconsciamente una cavia. Ogni volta che ci curiamo con terapie non convenzionali o off-label siamo cavie.
Potremmo persino dire: ogni volta che una donna decide di portare a termine una gravidanza è una cavia, perché le morti a causa del parto sono in Italia 9 ogni 100 mila nati vivi: 43% per emorragia, 19% per ipertensione, 8% per tromboembolia. Quando facciamo assaggiare una noce, una fava o un gamberetto ai nostri bambini facciamo di loro delle cavie: uno choc anafilattico su tre si verifica entro gli otto anni di età. Ogni volta che sperimentiamo una sostanza stupefacente o mescoliamo alcool e farmaci siamo delle cavie, ogni volta che prendiamo un prodotto erboristico senza la consulenza di un esperto che possa valutare il quadro generale di salute e sconsigliare possibili interazioni nocive siamo delle cavie.
A volte le nostre scelte ci salvano, a volte ci uccidono o ci danneggiano. Una volta fatta la scelta, non c’è la controprova per capire come sarebbe andata scegliendo diversamente. Ma a volte, e questa è la cosa più bella, le nostre scelte ci permettono di salvare la vita a quelli che verranno dopo di noi: sia perché la cura funziona, sia perché non funziona e grazie all’errore si può non ripeterlo e correggere il tiro.
Per questo credo che, forse, sarebbe meglio evitare di dire “non sono una cavia” ma “sono una cavia di quel che scelgo”. E dovremmo essere grati alle cavie di tutti i tempi, che con la loro lucidità o follia ci hanno talvolta migliorato o salvato la vita.
Immagine: fotografo anonimo, Giocando con un porcellino d’india, 1950 circa, Public domain