E del perché voglio salutare Amedeo Ricucci grande inviato di guerra, volato via troppo presto.
Amedeo Ricucci, lo chiamavamo Hamed. Perché aveva quella bella faccia da arabo che hanno molti calabresi. E perché aveva quella bella faccia da calabrese che hanno molti arabi. Lui ne era fiero, ed era vanitoso e battagliero e innamorato degli ultimi.
Amedeo Ricucci, perché non voglio si dimentichi, ne ha passate di tutti i colori: è stato rapito in Siria, ha visto morire i colleghi in Somalia e in Palestina. Ogni volta che l’ho sentito o incontrato, negli ultimi 25 anni, era sempre incazzato, perché la RAI voleva i servizi di costume tipo l’albero di Natale a Kabul e lui voleva raccontare le cose vere che succedevano veramente. Mi faceva molto ridere, e più ridevo più s’incazzava.
Mi hanno messo alle sue calcagna quando avevo poco più di venti anni e non sapevo fare niente. Lo seguivo come un cucciolo ma se avevo una buona idea mi ascoltava sempre. Altre volte invece diceva che era meglio fare come diceva lui perché “quando mi muovo io su una questione, poi un giudice apre un’inchiesta”. Non era proprio un finto umile.
Ho imparato tanto da lui ma mai, purtroppo, quell’aria sorniona che gli apriva tutte le porte, e quella sfrontatezza un po’ “macha” che in chiunque altro mi avrebbe infastidito. Ma non in Hamed, perché poteva permettersela.
Non la faccio lunga sulle sue medaglie, roba che si può leggere sui giornali. E siccome i coccodrilli petalosi non gli sono mai piaciuti, dico che Amedeo Ricucci era uno che organizzava le cene per 10 amici e poi non si presentava, o arrivava all’ammazzacaffé. Come si fa a non adorare uno così?
Se ne è andato troppo presto e in silenzio, da uomo spigoloso qual era. Ma erano spigoli di gomma, e lo scoprivi se avevi abbastanza coraggio da avvicinarti. La prima volta che l’ho visto aveva la kefiah al collo e quell’inseparabile giubbotto con le tasche da umarell-pescatore che non si poteva guardare. Non l’ho mai visto senza tranne nella foto che ho scelto per ricordarlo, di cui mi scuso con l’autore per non averne rintracciato l’identità.
Io ero lì che scrivevo tutta impegnata con 10 dita sul computer. Una fatica boia, imparare. Lui mi passa accanto, con la sua MS tra le dita color zafferano e un bicchierino di plastica da caffé pieno di grappa. Erano le 11 del mattino. Poi con aria sorniona mi fa: “Un vero giornalista non scrive con 10 dita”, poi se ne va. Dopo 15 minuti ho disimparato tutto e adesso scrivo con 6 dita, come nei film anni ’50. Tutta colpa sua.
Mi resta il ricordo di quella fossetta all’angolo della bocca, e la sua malvagia soddisfazione di avermi messo, finalmente, sulla strada giusta. Ciao, Hamed.
Nella foto da sx: Fernando Pellerano, Amedeo Ricucci, Paolo Soglia, Paolo Barnard – Radio Città del Capo, 1996